Alfonso Rocchi

Alfonso Rocchi

Amanzio Possenti

2023

La poesia dolce, la bellezza e la femminilità donano fascino alla pittura di Alfonso Rocchi

C’è un non so chè di misterioso e di affascinante nella pittura di Alfonso Rocchi, quasi un brivido di bellezza nascosta e pronta a manifestarsi, bellezza dolce e suasiva che rompe gli schemi tradizionali del Bello in sé per affidarsi ad una declinazione di sentimenti universali che tanto emergono protagonisti quanto amano e raccontano il silenzio dell’animo.

Siccome le pittura di Rocchi predilige ed esalta la figura femminile - tenere fanciulle, ragazze in fiore, donne materne e incantate, Madonne spiritualmente vive, visioni di stupore permanente – parrebbe strano ammirarne soltanto la bellezza; difatti l’artista, che ondeggia con cura fra valori e gusto della figura, crea un’aurea di mistero quasi a ‘scolpire’ la femminilità, fissandola come mondo a sé stante, tra emozioni che turbano e fascino che dà spazio alla immaginazione.
Ecco la meraviglia di questa pittura, che mentre sembra richiamare la suggestione di quella rinascimentale e classica, se ne discosta con proprietà e per contemporaneità.
La donna - personaggio - costantemente in primo piano e che asseconda pose e tipicità antiche - pare collocarsi nel passato tra volti di bellezza dirompente e abiti di tempi lontani. Invece esprime - in unità di stile e in sensibilità di movenze e di sguardi - gusti, tendenze, tensioni, spasmi, speranze, illuminazioni di oggi; il dipinto è vissuto nella temporalità della sua poesia scenica.
Il gioco di colori - la cui forza espressiva è l’anima inventiva di Rocchi, che assapora e usa la policromia come istinto narrativo, originale, privo di accademismi, con attenzione puntuale ad un ininterrotto gesto di amore alla pittura - quel gioco coloristico diventa occasione di luce, di attriti, di spazi icastici, di penetranti operazioni psicologiche, con inserzioni di elementi esteriori della quotidianità odierna, parzialmente e artisticamente trasgressive, in linea con una narrazione dell’oggi.
La qualità pittorica è fuori dubbio, il linguaggio è chiaro, immediato, semplice e coerente, la delicatezza è misura di pacato equilibrio, l’impatto visivo significa emozioni, il dipinto è gioioso percorso di poesia.

L’arte di Rocchi - tra intuizione, volumi appropriati, armonie nello spazio intracornice - sollecita ad amare la proposta espressiva del quadro e invita lo spettatore a specchiarsi là dove l’espressione rimanda: al fascino di una bellezza nobile e severa che accompagna, senza sentimentalismi, la gioia del sentirsi Autore (privilegiato) da una parte e fruitori in ricerca dall’altra.
La pittura di Rocchi rivisita la caducità del Bello senza tempo: del quale l’umanità ha bisogno come il respiro nel cammino faticoso verso l’Infinito divino.

Anna Caterina Bellati

2010

Lo stupore della bellezza

Ci sono momenti nella storia dell’arte in cui un artista ha nelle mani il potere di mostrare Ia bellezza fino al punto in cui questa diventa stupore. Divino o terreno non conta Purché ci consoli del male dell’esistenza. Rocchi lavora appunto sul tema di una bellezza folgorante e insolita che diventa, quadro dopo quadro, compendio dell’idea di perfezione calata nella quotidianità della vita. Per certi pittori il bello è una dottrina, un’icona da immortalare e rendere percepibile ai distratti, ai disillusi, a chi ha perso la speranza della serenità. Rarefatti e pacati, i lavori di quest’artista distante dalle mode e dai modi del mercato, dicono di una passione naturale per il senso profondo dell’arte che innanzitutto è presenza e compromissione con la realtà. Le fanciulle di Rocchi, abbigliate e costruite come ragazze del Cinquecento, raffigurano non solo se stesse ma ripropongono un tipo, quello della dea-donnasogno­donnadesiderata-futuramadre che contiene tutte le possibili valenze dell’eterno femminino. Rifacendosi alla maniera. antica, il lavoro di Rocchi arriva all’osservatore come visione, nella quale la figurazione si esprime sotto specie di linea e contorno. Ma ci sono con i predecessori le debite differenze. Fino alla fine del Rinascimento il ritratto, non accontentandosi di riprodurre le fattezze del soggetto, introduce nel contesto degli elementi idealizzati. Così nei dipinti oltre agli oggetti che significano la ricchezza e il prestigio, gioielli, broccati, acconciature, compaiono animali e fiori simbolici derivati dalla pittura sacra. Nelle opere entrano dunque il cagnolino testimoniante la fedeltà; il libro a prova di erudizione; l’ermellino che suggerisce l’incorruttibilità dello spirito, il giglio che indica l’innocenza, la rosa la passione amorosa, Rocchi usa il cardo significante il Cristo che si immola per la razza umana. Importante è poi la posa. II viso deve essere purissimo e stagliarsi sullo sfondo come un cameo, sia quando compare su un fondo scuro, sia quando alle sue spalle cresca un paesaggio collinare e liquoroso. Su tutte le meraviglie dei maestri amati da Rocchi basti ricordare il Ritratto di donna del Pollaiolo.
La giovane vista di profilo con il cielo per sfondo forse aveva come cornice originale, oggi perduta, il motivo del vano di una finestra.
Indossa un corpetto scollato, allacciato con una serie ravvicinata di bottoni e mostra una elaborata acconciatura con «reticella gemmata a cuffia» (Levi Pisetzky, VIII, 1957) di straordinaria eleganza.
Il velo che copre le orecchie trattiene capelli arrotolati sulla nuca morbidamente. La mossa bionda è circondata da un filo di piccole perle, infilate in modo da creare un movimento alternato che si chiude al centro della testa.
Attorno al collo pende una collana in cui si alternano tre perle bianche e una nera, completata da un pendente con rubino. L’identità di questa deliziosa figura femminile non è nota e questo le ha permesso di veleggiare fino a noi con tutta la grazia e il mistero che le si addicono.
Questo dipinto famosissimo riassume l’ideale di una figura slanciata, perfetta, bellissima a metà strada tra la Musa e la donna amata che, se in epoca romana rappresentava la Fama e la Vittoria, mentre per la chiesa ha sempre incarnato il valore della Virtù; nel XV e XVI secolo diventa simbolo delle attività della mente e delle qualità dell’anima. Dal canto loro le fanciulle di Rocchi di solito compaiono in campo scuro, un debito che Rocchi ha contratto da tempo con la pittura fiamminga a partire dalle opere quasi miniate di Jan van Eych, per continuare con Antonello da Messina e dì seguito con buona parte della ritrattistica del XVI secolo.
Di rado le sue ragazze sono ritratte al mare o in compagna. Sembrano immobili, eppure si muovono lentamente fino a girarsi verso chi le guarda.
Ma la curiosità dell’osservatore non potrà scalfire la loro distanza e la loro, fierezza.
Appartengono a un mondo ideale dal quale piovono idee e sensazioni sulle nostre teste, ma dove non è concesso entrare. Posseggono la grazia, un misto di superiorità e sprezzatura che non è propria delle persone qualunque.
Hanno volti ovali di una dolcezza imperiosa, incarnato magnolia fragile e in procinto di sciogliersi nell’aria, occhi spalancati sul mondo, sguardo rivolto al futuro fuori dalla cornice del dipinto, bocche piccole e carnose appena dischiuse al sorriso, acconciature elaborate con cerchietti incrostati di perle, quando non portano sul capo cespugli di rose multicolori che coltivano la perfezione della fronte e l’arco nobile delle sopracciglia.
Sono sottili come giunchi, eleganti nella posa, calme nella postura, assorte nella propria intimità di giovani con un lungo percorso ancora da compiere.
Rocchi, che pur cita di continuo i grandi come il Pollaiolo, o Leonardo, fino a Modigliani in quei lunghi colli sinuosi librati su spalle acerbe e intocche dall’uomo, ha inventato un personaggio nuovo nell’arte contemporanea, quello di una giovane che conserva il mistero e la freschezza della donna angelicata pur compromettendosi con il mondo contemporaneo. I suoi dipinti imperniati su un discorso poetico nato nelle corti rinascimentali, sono intessuti di brevi note collocate a margine che dichiarano tuttavia la temporalità del soggetto. Sul buio assoluto dello sfondo spicca la protagonista.
A una prima verifica diresti trattarsi di qualche nobile pulzella il cui padre aspiri a contrarre per lei un grande matrimonio di quelli che aumenteranno il prestigio della famiglia e garantiranno alla prole possedimenti e inviti a corte.
E invece no.
Le delicate mani dalle dita affusolate non carezzano un libro miniato di Anselmo, ma hanno appena appoggiato sul tavolo una bottiglietta di Coca-Cola.
Qui Rocchi innesta la propria appartenenza alla modernità su una pittura di rarefatta perfezione. Proprio come aveva fatto Andy Warhol nell’America corpulenta e consumista degli anni Del resto, a dirla con Rocchi, gli uomini hanno sempre perduto il senno per amore di una fanciulla. Perché la bellezza suggerisce il sublime e da ogni riposto luogo della storia nessuno ha mai potuto vivere senza desiderarne la presenza.

Delfina Maffeis

2006

La poetica del ricercare

Sulla pittura di Alfonso Rocchi, Non esistono ragioni razionali in base alle quali si possa spiegare perché l’uomo, tra tutti gli esseri che abitano la terra, abbia deciso di dedicarsi ad un’attività all’apparenza non utile né necessaria come la creazione artistica e la sua fruizione; semplicemente ed inspiegabilmente egli lo fa da millenni, da quando ha abitato la prima caverna e ne ha decorato le pareti rocciose con i primi graffiti o le prime pitture. L’atto del decorare le pareti della sua “casa” pare per l’uomo un impulso ineludibile, in grado di potenziare quel basilare atto di appropriazione di un luogo che egli compie “abitandolo”. La domanda non è da poco, ed oggi interessa sia l’arte che la scienza, specie negli studi di molti moderni biologi, fra cui Semir Zeki, autore di un testo significativo della moderna neurobiologia, dal titolo “La visione dall’interno” in cui egli analizzando i rapporti fra scienza ed arte, fenomeno della visione e cervello, giunge a definire una nuova disciplina che chiama “La poetica del ricercare”. Secondo tale prospettiva, l’arte, sia per chi la produce che per chi ne fruisce, coinvolge una serie di operazioni che si svolgono nel cervello dell’uomo; sia I’esperienza estetica che qualunque esperienza cognitiva sono soggette a leggi che regolano alcune attività cerebrali e coinvolgono alcune strutture nervose nello stesso modo in tutti gli uomini, animali visivi, animali spaziali, per i quali, secondo il modello di approccio psico-cognitivo elaborato da Zeki, l’arte può rappresentare una sorta di linguaggio universale con leggibili da tuffi indistintamente, al di là delle differenze e delle diversità etniche, sociali, culturali. L’arte sarebbe quindi uno dei tanti canali percettivi-cognitivi attraverso i quali l’uomo analizza il mondo che lo circonda e recepisce e scambia su di esso preziose informazioni. Una sorta di poetica del ricercare che abita l’universo conoscitivo e valoriale dell’uomo, da sempre. Tuttavia il concetto di arte, ed il significato del fare arte, mutano nel tempo a seconda dello sviluppo della cultura di un’epoca, della storia, della filosofia, dell’etica, della struttura psichica degli individui. Fino alla metà dell’800 era facile concepire l’arte come rappresentazione oggettiva della realtà, come mimesi del mondo; con l’avvento della fotografia l’arte ha rinunciato al suo ruolo documentaristico, che la fotografa assolve meglio. Con l’avvento dell’Espressionismo cade il concetto di rappresentazione intesa come riproduzione, l’arte visiva diventa mezzo per una profonda analisi della psiche umana, la rivolta contro l’imitazione delle avanguardie del ‘900 inventa per l’arte un nuovo compito, quello di rappresentare non più la realtà concreta, ma quella invisibile, ovvero l’interiorità dell’animo umano, I’inconscio. Ritengo che l’arte di Alfonso Rocchi si collochi all’interno di questo mondo di significati che ho cercato di delineare. Le opere artistiche che qui ammiriamo esprimono l’animo umano, sono un potente canale di comunicazione dell’incomunicabile, di catalizzatore per reazioni emotive che altrimenti resterebbero inespresse. Preciso subito che intendo fornire, senza alcuna pretesa di esaustività, solo alcuni spunti di riflessione. Il quadro è un’entità che offre sé stessa allo sguardo senza mediazioni: è colore, forma, armonia o dissonanza, in alcuni casi armonia e dissonanza unite. Proprio dall’assenza di mediazione dalla quale i quadri di Rocchi sì pongono scaturisce la reazione interna, emotiva, che essi suscitano in chi li guarda. La parola intorno al quadro è necessariamente labile, frammentaria: non può essere, in nessun caso, definitoria o interpretativa, se non in virtù di una sorta di violenza che pieghi il quadro alla cultura, ai meridiani e ai paralleli che albergano nella mente del cosiddetto “critico”. Per questo motivo lascerò che la parola fluisca liberamente, facendo emergere la sua funzione più nobile, quella evocativa. Una parola “evocativa” dunque, una sorta di post scriptum ai quadri, una sorta di cassa armonica che produca risonanze all’interno di noi, uniti dall’esperienza potente e perturbante del “guardare”. Ciò che appare con assoluta evidenza nella pittura di Rocchi è la mancanza di descrittivismo, sebbene la leziosità gioiosa di talune sue figure, il loro candore intrigante ce ne suggeriscano, in alcuni istanti, la presenza. Dovremmo allora chiederci se sono quelle forme, quelle luci, quei volti di donna, quel colori in sé a suscitare le nostre reazioni emotive o non è piuttosto un “Qualcosa” che sta prima e al di sopra di luci, volti, forme e colori e in qualche modo rivive in essi, ovvero che da essi viene in qualche modo riflesso? Qualcosa che ci abita internamente, tutti noi, da sempre, il simbolo ad esempio. La pittura di Rocchi è intrisa di simboli, per questo non può permettersi il lusso del descrittivismo: è pittura concettuale, o meglio ideale, poiché realizza e incarna un’idea. Soffermerò la mia attenzione sulle figure di donna dipinte da Rocchi, ricerca ed espressione incessante di un archetipo femminile, di un’immagine ideale vagheggiata, occasione per l’esaltazione dell’idea di individualità e di femminilità. Sono misteriosi i fattori che presiedono alla creazione artistica, ma spesso sono dei canali, ancora più misteriosi e misteriosamente intrecciati fra di loro, che collegano la mano dell’artista ai cosiddetti archetipi collettivi passando attraverso un relais, che chiamiamo psiche, la psiche dell’artista. E forse è questo che caratterizza il talento: avere una psiche (ma diciamo pure un’anima) che riesce a scoprire e a evidenziare quegli archetipi che ciascuno vorrebbe avere scoperto, riuscendo a trasmetterli ad altri rendendoli evidenti. Apprezzare un quadro, un’opera d’arte qualsiasi, una poesia, un bel libro, significa trovare in essa quello che cercavamo da tempo e che non eravamo mai riusciti a scoprire. Un’idea di donna ad esempio, di amore. Altro punto di forza della pittura di Rocchi è la capacità di trasformare il colore in luce, (e - si osservi - non usa il colore per riprodurre la luce: trasforma il colore in luce) con un’operazione che in una struttura formale del tutto diversa, semplice e non complessa, era alla base della pittura dei quadri rinascimentali. Anche il colore narra, forse è per questo che Rocchi insegue spesso soggetti molto simili tra di loro, ciò che li differenzia, ma si può cogliere solo con un’attenta osservazione, è la differente associazione cromatica degli “oggetti” che compongono il quadro, in cui il gioco evocativo emozionale si esprime. E’ il colore fatto luce che consente a quell’opera, a quel volto, di acquisire un colore emotivo differente, di evocare in noi un altro sguardo, un altro archetipo interno. Interessante anche l’uso dell’espediente proprio della pittura dell’avanguardia, i titoli che - come ha detto Octavio Paz - fanno parte integrante delle opere. Naturalmente non bastano i titoli da soli, ma indiscutibilmente un titolo come Medusa, Babel Tower, Abbraccio, solo per citarne alcuni, costituiscono indiscutibili chiavi di lettura del quadro nella sua interezza e complessità. Nella pittura di Rocchi domina la figura umana, che, nella rappresentazione della donna, diviene cosi archetipica da lasciarne quasi sospesa l’identificazione. A parziale commento delle figure di donna dei quadri di Rocchi vorrei usare il brano del Faust di Goethe in cui il poeta parla delle “madri”, depositarie delle immagini ideali delle cose: “...Divinità solenni troneggiano in solitudine; intorno ad esse non luogo alcuno, ed ancor meno un tempo. Parlare di esse turba. Sono le madri...”. Secondo Goethe l’immagine prima di Elena, idea pura della bellezza, si trova presso le “madri”: Elena non narra la propria storia, si pone come una figura ideale sottratta al tempo e alla sua furia devastatrice, irreale quasi, evanescente. Analogamente le figure femminili dipinte da Rocchi sono figure silenziose, intrise di silenzio, votate al silenzio come se nulla, sul mondo, si potesse dire. Sono donne eternamente ritratte nell’atto di abbozzare un sorriso, la bocca schiusa, l’espressione vaga che sottolinea, o ricorda, l’alterità del pittore, del suo sguardo, la sua ferma e tenace volontà di tacere. Sono donne il cui silenzio è coraggioso, cosi come coraggioso è il modoin cui Rocchi le ritrae. Accanto ad esse ci sono le donne nude, lascive, carnali, che occupano generalmente i margini del quadro, che si sdraiano provocatoriamente sull’aureola dorata della madonna con il bambino, che si accoppiano con un sorriso malizioso negli anfratti della tela dipinta...
L’altro volto del femminile, un altro archetipo che riemerge dalle profondità dell’inconscio ed afferma la sua necessità di esistere. La sua pittura, intesa come tecnica pittorica è lieve, il colore viene steso con pazienza certosina affinché neppure una traccia dì materia rimanga sulla tela, ma colore e forma divengano, in una sintesi perfetta, quello che chiamiamo “immagine”, un’immagine talmente pura e sublimata da parere, a tratti, irreale, come se appartenesse ad un mondo ideale. Nei quadri composti da molte figure, che l’autore stesso definisce “corali” e di cui abbiamo alcuni esempi di grande potenza ed intensità espressiva, la pittura diventa espressione di un conflitto tra lo sguardo dell’artista e la società odierna, contemporanea, non meno intrisa di volgarità e brutture rispetto a quella del passato rappresentata simbolicamente nel quadro. La pittura diventa allora, in Rocchi, provocazione, denuncia delle contraddizione delle storture sociali, della disarmonia; provocazione che si esplicita non solo nella velata e sottesa critica al mondo presente, ma anche nei contrasti di forme e colori che appaiono, talvolta, nei quadri di Rocchi: la bottiglia di coca-cola, l’accendino si oppongono allora ai volti esili e protesi delle donne, somiglianti a vaghi pettirossi. Emerge l’idea di un’ arte che rivela, che scopre l’inganno d un mondo allo sfacelo, seguendo in ciò la sua più autentica vocazione. La pittura di Rocchi sa dirci qualcosa sul mondo, possiede un linguaggio e la capacità di narrare la necessità di uno svelamento, di una denuncia. L’arte non condanna, svela, dà la possibilità di uscire dal mondo di ombre della caverna di Platone, di accedere alla luce della conoscenza. In questa prospettiva l’arte ha una funzione eminentemente terapeutica, curativa. Ma perché la terapia funzioni abbiamo, tutti, il dovere “morale” di credere all’arte,. alla sua potenza demistificatrice, alla sua capacità di trasformare la parvenza in vita. Vorrei ringraziare il pittore anche e soprattutto per il coraggio delle sua scelte estetiche e pittoriche, nella consapevolezza che la globalizzazione culturale ed estetica oggi indirizza gli artisti verso una perdita della consapevolezza del loro ruolo socio culturale e dell’originalità ed unicità del loro percorso di ricerca.

Lea Mattarella

2012

Donne nel tempo

Ci sono artisti che convivono con un’ossessione. E fanno di questa il centro del loro percorso creativo. Alfonso Rocchi è uno di loro. Da anni la sua fantasia è occupata da modelle immaginarie che gli arrivano dalla tradizione pittorica italiana (i pittori senesi del Quattrocento, Pollaiolo, Leonardo) fiamminga (Hugo Van der Goes) e più in generale nordica (Lucas Cranach). Si tratta di figure eleganti, spesso bionde, dall’ovale perfetto, i lineamenti delicati, il collo lungo come quelle fanciulle di Modigliani nate da suggestioni toscane del Quattrocento, in particolare da Botticelli.
Sono belle queste donne assorte e silenziose. Ed è la prima cosa che colpisce. Ma a guardarle con attenzione - quella con la bottiglia di coca cola e l’altra con la pettinatura che si impenna bizzarra sulla testa; e poi ancora colei che ha un piercing al lobo dell’orecchio in cui ha infilato una spilla da balia e quella che ha appena accartocciato un pacchetto di sigarette e lo ha lasciato vicino a sé - ci si accorge che, in realtà, tutte loro sono una. Sempre la stessa che, ogni volta, mette in scena la sua diversa rappresentazione, un serissimo gioco a cui siamo chiamati a partecipare.
Anche la posizione in cui Rocchi le vede non cambia quasi mai: corpo di tre quarti, viso di fronte, una spalla bene in primo piano a creare una curva sinuosa, l’altra sempre nascosta per rendere visibile la leggera torsione appena avvenuta.
Tutt’intorno un fondo nero da cui lei, la nostra eroina fragile e potente, emerge investita di luce, come si affacciasse alla finestra, esuberante e impassibile a un tempo.

E poi c’è questa faccenda dello sguardo. Che abbia in mano un ventaglio o al collo un fila di perle, che indossi un abito di fattura antica o una leggera tunica, che abbia un fiore rosso di montagna posato lì accanto, oppure stia accarezzando un gatto, la modella ideale di Rocchi guarda sempre davanti a sé, lontano, anche aldilà del pittore stesso che la ritrae o dello spettatore del quadro, di cui pure reclama e cattura l’attenzione. Inoltre, in tutta questa idealizzazione dell’eterno femminino, c’è un particolare fondamentale: il colore degli occhi diverso che crea un piccolo strabismo, una leggera imperfezione. Come se l’artista sapesse che è proprio lì, nell’elemento che crea lo scarto, l’inaspettato, che si acquatta e va stanata la bellezza.

Ho chiesto a Rocchi come mai le sue fanciulle avessero un occhio azzurro, quasi sempre quello a destra, e l’altro marrone e la sua risposta è stata molto semplicemente: “Mi vengono così”. E poi ha aggiunto: “c’è una razza di cani qui da noi, il pastore bergamasco, che ha gli occhi di due colori diversi”. Affermazioni che danno conto di due grandi verità: la prima è che spesso a chi dipinge le cose arrivano da chissà dove, si fanno vive, gli si palesano davanti, e a lui non resta che dargli un aspetto reale in modo da riuscire a mostrarle anche agli altri. La seconda è che tutto quello che circonda un pittore nella vita di ogni giorno, che lui è abituato a vedere quotidianamente, può venire trasfigurato in una dimensione diversa, lontana, unica e anche magica che è quella dell’opera. I dipinti di Rocchi non sono mai di dimensioni troppo grandi. Perché la sua è una pittura intima, rivela un coinvolgimento a due. All’inizio il dialogo è tra il pittore e la sua modella. Ma quando il quadro esce dallo studio, sei tu che guardi a essere chiamato a intraprendere un muto colloquio con il soggetto misterioso che hai davanti. E, seguendo il cammino indicato dall’artista, cerchi di carpirne i segreti, ma tutto resta in un’atmosfera sospesa che crea una sempre maggiore suggestione. Sei certo di riconoscere una fonte pittorica in un’opera antica per quel gesto della mano o per quel modo di tenere l’acconciatura, ma, nonostante questa sicurezza, lo sguardo dagli occhi diversi ti ha trascinato nel territorio dell’ignoto. E i particolari, le tracce, gli indizi di cui Rocchi dissemina il quadro non fanno che aumentarne il lato indecifrabile.
È evidente come la volontà dell’artista sia quella di esaltare il carattere antico di queste figure, la loro estraneità al mondo, come se loro compito fosse quello di rappresentare la fuga in una realtà diversa, idealizzata, dominata da un’idea di bellezza senza tempo. Ma non si limita a questo.
Crea sempre, palesemente, un effetto dissacrante che ha le sue profonde radici nell’ironia, nel carattere ludico con cui affronta la pittura, e magari anche la vita. La bottiglia di coca-cola, il piercing, il pacchetto di Marlboro sono simboli precisi di una modernità, oggetti che circondano Rocchi tutti i giorni e che lui non può lasciar fuori dal quadro. C’è un carattere pop evidente nella sua pittura: la ripetizione, l’ossessione, l’oggetto come espressione fredda di chi siamo e dove.
Le donne di Rocchi hanno origini molto lontane, ma hanno attraversato il tempo. Per arrivare davanti a noi. Inafferrabili, forse sfuggenti, sicuramente enigmatiche. Sono una, nessuna e centomila. Lungo, fatto di pazienti velature, è stato il lavoro dell’artista per ritrovarle e portarle ‘qui e ora’. Sicure, caparbie e spavalde. Fiere di restare inafferrabili.

Delfina Maffeis

2008

La rappresent-azione nella pittura di Alfonso Rocchi

Jan Van Eyck
Hieronymus Bosch

Parlare di pittura presuppone il forzare l’immagine all’interno di una modalità di rappresentazione che per sua natura non le appartiene.
Immagini e parole seguono canali differenti di narrazione e forniscono racconti assai diversi intorno al mondo.
Per questo la parola intorno al quadro è necessariamente labile, precaria, frammentaria: non può essere, in nessun caso, definitoria o interpretativa, se non correndo il rischio di ingabbiare il quadro nel mondo culturale che abita la mente di colui che ne parla.
Accostandosi alla pittura di Rocchi, si rimane colpiti da qualcosa di cui oggigiorno si sente difficilmente parlare in ambito artistico, qualcosa di “innominato”, a cui tuttavia noi tutti aneliamo, ovvero la bellezza. Sono quadri belli, prima ancora che simbolici, nutriti di archetipi, evocativi... sono innanzitutto belli. La leziosità gioiosa di talune figure, il loro candore seducente, la femminilità che è tensione e ricerca ma al tempo stesso appagamento sono i volti della bellezza con cui l’artista ci intriga, ci ammalia ed agisce sul nostro mondo interiore. “Il bello è ciò che piace universalmente senza concetto” disse Kant più di due secoli fa e forse proprio a quest’idea di una bellezza che sia tale non senza ma a prescindere dal concetto dovremmo tornare, per riscoprire il valore profondo, rituale e formativo, di un modo di essere umani che torni ad essere “universale”, ad avere la forza e la potenza del rito, che sia nuovamente capace di farci accedere al sacro.
Ogni opera dipinta è la materializzazione di una rappresentazione destinata all’altro, è al tempo stesso apprensione e restituzione del reale, anche se talvolta il rapporto con il reale può rimanere volontariamente nascosto o andare smarrito nella fruizione dell’opera. Lo sguardo, attraverso gli occhi, raccoglie dati fisici sul mondo visibile. Di un quadro coglie ad esempio le forme, i colori, la disposizione spaziale degli oggetti, il movimento: tuttavia, il semplice disporre di queste informazioni non consente di conoscere ed interpretare il quadro, poiché il suo “significato” va oltre la dimensione percettiva, va oltre forme, colori, spazi presi singolarmente e scaturisce dall’interazione di ciò che si vede con la mente di colui che guarda, con il mondo interno di colui che osserva. Già Matisse affermava che per l’artista “vedere è un’operazione creatrice che richiede un certo sforzo” e che si delinea come un configurare il mondo nell’atto stesso in cui lo si guarda. Andiamo oltre ed affermiamo che anche guardare un’opera d’arte è inevitabilmente un’operazione creatrice, poiché il quadro “diviene” e si manifesta non solo in relazione all’intenzionalità dell’artista ma anche in funzione dello sguardo del fruitore. Il pittore inscena, dipingendo la tela, una “rappresent-azione”, ovvero un’azione che si rappresenta, si narra, affinché qualcuno, guardando, la veda: il quadro presuppone colui che lo guarda e ne gode, colui che è capace, tra gli altri, di trovarlo bello e di sceglierlo affinché divenga parte della sua vita, della sua storia. I Greci possedevano una sola parola ed un solo concetto per definire l’arte e l’abilità manuale: tekné, a significare ed enfatizzare il ruolo del fare nella genesi dell’arte, fare che noi qui ora interpretiamo come animato da una duplice fiamma, quella prassica e concreta del dipingere il quadro e quella della “rappresent-azione” connessa al fare simbolico dell’intenzionalità che si dispiega. La percezione dell’opera d’arte non può in questa prospettiva essere considerata solamente un fatto individuale; se la rappresentazione è un fatto sociale è sociale anche la fruizione e si configura come costruzione di senso insieme all’artista che, dipingendo la sua opera, ha scelto di destinarla all’altro affinché la guardasse e ne fruisse.
L’artista non è vita incarnata, è un concetto.
Abbiamo costruito attorno al mondo una rete di riferimenti, una cornice culturale che aveva originariamente la funzione di avvicinarci alla comprensione del mondo, ma abbiamo commesso l’errore di scambiare la rete di riferimenti per il mondo.
E’ al mondo che dobbiamo tornare e la pittura, come apertura nei confronti della bellezza e della sacralità può aiutarci a realizzare questo ritorno; l’artista diviene allora guida, apertura alla bellezza che abita il mondo.
Forse è questo il motivo per cui le opere di Alfonso Rocchi continuano ad affascinarci, perché nelle sue figure di donna, così spesso rappresentate e ritratte nell’atto di abbozzare un sorriso, la bocca schiusa, l’espressione vaga e lo sguardo talvolta perso in un altrove, troviamo sì l’alterità della pittura rispetto al mondo ma anche la sua imprescindibile vicinanza alla nostra psiche, al nostro mondo interiore.
I volti di quelle donne, nella loro bellezza, ci ricongiungono al mondo, ne mostrano la bellezza, ci aiutano a desiderarla in noi ed a riconoscerla e rispettarla fuori di noi.